Bilancio pubblico (età liberale)

di Clemente Forte

In ordine a una sintetica analisi del bilancio pubblico nell’Italia liberale – per questioni di spazio non viene analizzata l’evoluzione del debito pubblico, tema per il quale si rinvia alla bibliografia – si può adottare una periodizzazione in tre parti: dall’unificazione alla fine del secolo XIX, il primo decennio del ’900 e infine gli anni fino alla Prima guerra mondiale.

Dall’unificazione alla fine dell’800

Nel periodo – che ai fini dello svolgimento del tema è in effetti il più rilevante – la quota della spesa pubblica sul prodotto interno lordo si attestava su valori che oggi sembrerebbero bassi, ma che all’epoca erano abbastanza elevati: dal 13,1 per cento del 1872 si passa al 16,2 per cento del 1900 [cfr. Brosio, Marchese 1986, p. 51, tab. 3.1.]. Per alcuni, questo sta a significare una «relativamente scarsa importanza quantitativa» dell’attività finanziaria statale, il che non confligge però con la sua «spesso determinante influenza su alcuni elementi della struttura del sistema economico italiano» [Pedone 1967, p. 286]. La più elevata incidenza sul pil della spesa pubblica rispetto ai principali Paesi europei nell’epoca può comunque trovare giustificazione nel fatto che, essendo il reddito complessivo e pro capite nel nostro Paese inferiore, si è in presenza del «tentativo del governo nazionale di dotarsi di strutture e di servizi tendenti alla media europea, pur in condizioni di minori disponibilità di risorse» [Brosio, Marchese, cit., p. 51].

Nel periodo l’andamento della spesa pubblica sul pil assume un andamento oscillante, più elevato nei primi anni successivi all’unificazione proprio per gli oneri del processo di unificazione, più contenuto nei decenni successivi per poi risalire alla fine del secolo. Secondo altre ricostruzioni, nel complesso la crescita è costante, con un picco nel 1880 (18,4 per cento) e una riduzione nel 1900 al 16,2 per cento, [Brosio, Marchese, cit., tab. 3.1.] ma rimane la variabilità all’interno del periodo: con il governo della Destra storica, dopo il boom iniziale per i motivi accennati e su cui si ritornerà a breve, si raggiungono i livelli più bassi (intorno al 13 per cento sul pil del 1872). Il peso degli oneri della costituzione dello Stato unitario, per i primi anni del periodo considerato, è unanimemente ritenuto come un notevole aggravio, soprattutto in riferimento al servizio per i debiti degli Stati preunitari, che al momento dell’unificazione erano pari a quasi la metà del pil. L’andamento non intollerabile del disavanzo fino alla caduta della Destra storica sembra dovuto più all’incremento delle entrate, favorito anche dal buon ciclo economico, che al contenimento delle spese. Un peso l’ha avuto anche l’impostazione ideologica di quei governi, che facevano del rigore di bilancio uno dei punti fermi della propria politica complessiva. Sempre rimanendo sul versante della spesa, con l’avvento della Sinistra nel 1876 si ha una ripresa dell’incremento del relativo rapporto sul pil, sì da raggiungere in sei anni (1882) il livello del 1866, [Brosio, Marchese, cit., p. 53] determinato però dai noti eventi bellici.

Complessivamente, nel periodo ci fu disavanzo, con le entrate effettive che nella fase iniziale riuscivano a coprire più o meno la metà delle spese e una quota intorno al 90 per cento nel periodo fino al 1884, per poi riportarsi su valori inferiori [Pedone, cit., pp. 289-292]. Il deficit cominciò a crescere nel decennio successivo, anche se non appare facile capire quanto ciò sia dovuto a un mutamento ideologico, per così dire, e quanto a fattori esogeni, in quanto tali non facilmente controllabili.

Dal punto di vista delle singole componenti della spesa statale, quella legata alla difesa si attesta intorno a un quarto nel periodo, mentre il 60 per cento circa viene assorbito dall’onere per interessi e dall’amministrazione generale, laddove il servizio del debito è da ricollegare sia alle necessità di coprire i deficit sia al fardello degli Stati preunitari [Pedone, cit., p. 300, tav. 5]. Le scelte della Destra storica sono tali comunque da ridurre notevolmente il peso delle spese militari, precipitate dal 35 per cento sul totale nel 1866 in concomitanza con la terza guerra di indipendenza al 13 per cento nel 1873 [Brosio, Marchese, cit., p. 55].

Per la spesa civile un impulso notevole fu dato dal sottosettore delle amministrazioni locali, pari quasi alla metà, le quali contribuiscono peraltro allo sviluppo della citata componente legata alle opere pubbliche, che raggiunse nel 1888 quasi la misura di un quarto di tutta la spesa civile, a testimonianza di uno sforzo marcato – anche in via comparata – da parte di tutta la mano pubblica per dotare il paese di infrastrutture. Sempre per la spesa civile, una citazione particolare la merita anche la spesa per l’istruzione, anch’essa a carico per la metà degli enti locali, che fino alla fine del secolo quasi raddoppia il proprio peso sia come quota sulla spesa statale totale, sia come quota sul pil, sia come quota sulla spesa totale della pubblica amministrazione, sia infine come quota della spesa totale sul pil [Brosio, Marchese, cit., tab. 3.4.]. Un cenno infine merita la cosiddetta spesa redistributiva, – ossia lavoro, previdenza, assistenza, igiene e sanità, pensioni vitalizie, sostegno ai prezzi agrari, enti previdenziali – che, nell’ambito di una crescita stabile in tutto il periodo relativo all’Italia liberale, vede un ridimensionamento in termini reali nella fase della Destra storica più che controbilanciato nei periodi successivi, pur nell’ambito di una marcata modestia complessiva come incidenza sul pil, anche rispetto ad altri Paesi.

Passando alle entrate, in linea generale va ricordato che quelle tributarie erano nel periodo in questione di gran lunga le più rilevanti, quasi il 90 per cento di quelle effettive complessive. Il carico fiscale rappresentava una quota percentuale sul pil molto bassa, più o meno in media del 10 per cento, con un’oscillazione tra l’8 per cento del 1870 e il 14 per cento alla fine del secolo [Pedone, cit., p. 287] e con una composizione più o meno costante lungo tutto il periodo considerato: 36 per cento di imposte dirette, 13 per cento di imposte sugli scambi e il restante 51 per cento di imposte sui consumi, il che ha consentito di sollevare perplessità sul piano redistributivo. Vero è però che almeno nei primi dieci anni fu l’imposta sui terreni a rappresentare la voce di gettito principale tra le imposte dirette, anche se successivamente, all’interno del periodo, il suo peso andò via via diminuendo a vantaggio dell’imposta di ricchezza mobile, per ridursi alla fine del secolo intorno al 20 per cento del totale delle «dirette», rappresentando così il 7 per cento del totale delle entrate tributarie di contro al 18 per cento dell’inizio del periodo. Lo sviluppo maggiore lo ebbe dunque – come già accennato – l’imposta sulla ricchezza mobile, a testimonianza della crescente rilevanza dell’industria. Certo, rimaneva la caratteristica regressiva del sistema dovuta alla elevatezza delle imposte sui consumi e al loro interno della quota dovuta ai dazi.

Integrando l’analisi con le imposte degli enti locali, si ha un’evoluzione delle entrate più o meno simile a quella della spesa (con l’eccezione della caduta subito dopo la terza guerra di indipendenza, con il conseguente ampliamento del deficit) [Brosio, Marchese, cit., p. 79]. La quota delle entrate sul pil si incrementa costantemente: in quasi tutta la storia dell’Italia liberale si passa dal 6,8 per cento del 1886 all’11,6 per cento del 1913, quasi un raddoppiamento, quindi. Ciò che interessa per il periodo qui in considerazione è che il salto si ha quasi tutto nel quinquennio della Destra storica che va dal 1866 al 1871, quando il 6,8 per cento iniziale divenne il 10,8 per cento: un aumento della pressione fiscale quasi del 60 per cento quindi, che in linea generale può essere indicativo di quanto fosse a cuore l’equilibrio di bilancio a quella classe dirigente!

Rimane, certo, aperto il problema della distribuzione del carico fiscale, ripartito quasi a metà tra imposte dirette e indirette nei primi anni, situazione che peraltro non si modificò sostanzialmente con il cambio di «regime» tra Destra e Sinistra, la quale ultima non fece altro che registrare – in estrema sintesi – il maggior peso della ricchezza mobiliare su quella immobiliare. In generale, «nonostante la sua propensione ad espandere la spesa, sia nel campo civile che per le imprese coloniali, la Sinistra si scontrò con il vincolo di bilancio. Andata al potere con il proposito di porre fine alle durezze della politica tributaria di Sella, essa fu infatti incapace di proporre una organica riforma del fisco» [Brosio, Marchese, cit., p. 53].

Nel periodo va poi registrata la crisi degli anni ’80, con conseguente caduta delle entrate dovuta anche a modifiche di struttura dell’economia, non solo italiana, con meno scambi interni e maggiori transazioni con l’estero, nonostante l’aumento dei dazi doganali conseguente all’abbandono dell’impostazione libero-scambista. Verso la fine del periodo si hanno accentuate turbolenze politiche, come è noto, dovute anche a un motivo di carattere fiscale: anche allora il Nord percepiva il carico tributario come eccessivo e quando il ciclo economico non era più favorevole gli effetti della pressione venivano sentiti con maggior forza.

Il primo decennio del ’900

Il periodo può essere definito come quello del primo boom economico industriale dell’Italia unita. Le conseguenze sui bilanci pubblici sono ovviamente positive e anzi si sperimentano politiche attive di agevolazione e incentivazione di questo o quel settore attraverso lo strumento della leva fiscale. Il periodo si caratterizza per una situazione di avanzo per il bilancio dello Stato, dovuta più ad un contenimento della spesa che a un aumento delle entrate. Secondo alcuni, proprio questo portò al fatto che la finanza pubblica abbia svolto allora, inconsapevolmente, una funzione di freno mediante la riduzione delle spese effettive sul pil e l’incremento delle entrate effettive – ciò adottando la definizione in vigore nel nostro ordinamento contabile prima della legge Curti del 1964 – e di quelle tributarie in particolare [Pedone, cit., pp. 302-303].

Considerati anche gli enti locali, in linea generale il peso sul pil della spesa pubblica rimane nel periodo abbastanza costante, passando dal 16,2 del 1900 al 16,5 del 1903, al 16,1 del 1906 e al 16,3 del 1909, in contrazione dunque rispetto al 18,4 per cento del 1880 [Brosio, Marchese, cit., p. 51, tab. 3.1.], il che ha innescato l’eterno dibattito, ancora vivo oggi in riferimento all’attualità di questi giorni, se sia più di sviluppo una finanza pubblica in pareggio oppure in deficit. La scelta di Giolitti fu nel primo senso, in linea con gli orientamenti della Ue dei giorni nostri. Secondo altre ricostruzioni, peraltro, più che un avanzo di bilancio si ebbe nel periodo una situazione di sostanziale pareggio, ma questo non cambia la conclusione del discorso, tanto più se si considera l’altro elemento dell’alta incidenza delle imposte sui consumi, fattore, questo, di ulteriore favore per l’accumulazione di capitale e quindi per gli investimenti nell’industria, a parità di condizioni.

Nel dettaglio, per quanto riguarda le entrate, la composizione non sembra subire nel periodo grandi variazioni. Il gettito derivante dai consumi continua a dare più della metà degli introiti complessivi, mentre si riduce leggermente il contributo delle «dirette», anche se all’interno di queste ultime continua il processo di sostituzione della quota derivante dagli immobili con quella connessa alla ricchezza mobile, a testimonianza della progressiva ricomposizione dell’economia italiana, sempre più aperta sul lato dell’industria.

Per le spese statali, rimangono particolarmente rilevanti quelle tradizionali legate alla componente militare e al servizio del debito, sia pure entrambe in discesa come rapporto sul totale, ma pur sempre al di là del 50 per cento per le seconde e al 20 per cento per le prime [Pedone, cit., p. 305]. Secondo altre ricostruzioni invece «la componente militare ebbe anche un ruolo di rilievo nell’accelerazione della spesa successiva al 1900» [Brosio, Marchese, cit., p. 56], con un tasso medio annuo composto di crescita superiore al comparto civile. Bisogna far presente però che dalle serie storiche sembra che ci si riferisca di più al periodo successivo al primo decennio, nonostante la genericità dell’affermazione riportata, anche perché vengono richiamate cause come le imprese coloniali e la preparazione alla Prima guerra mondiale. Si incrementano comunque le spese per l’istruzione e quelle per le opere pubbliche in connessione sia ai nuovi investimenti (strade, opere di bonifica e marittime) sia alle spese di manutenzione. Per le prime la crescita è costante sotto tutti i profili già esaminati in relazione al precedente periodo, mentre, per le seconde, sulla base di altre ricostruzioni, nel periodo si ha una generale riduzione sulla spesa e sul pil da tutti i punti di vista si voglia riguardare la questione, ossia come percentuale sia sul totale della spesa statale, sia sul pil, sia sul totale della spesa della P.A., sia della spesa totale sul pil. Solo alla fine del periodo si ha un recupero, che permette di andare al di là più o meno delle percentuali medie del periodo precedente.

Permane nel periodo la quota già rilevata di spesa degli enti locali sul totale della spesa della P.A., con un impegno soprattutto in settori chiave come le opere pubbliche e l’istruzione.

Ultimo periodo: fino alla Prima guerra mondiale

Si tratta di un periodo comprensibilmente meno significativo, per gli eventi particolari che si andavano preparando. Dal punto di vista economico il reddito reale cresce a tassi modesti e di conseguenza le finanze pubbliche ne soffrono, ritornando in disavanzo, con una caduta sul pil delle entrate effettive (di ben due punti) maggiore della caduta delle spese. Secondo alcune ricostruzioni il fenomeno è dovuto solo in parte alla crisi economica: giocano anche altri fattori più strutturali, come la riduzione progressiva delle imposte dirette e soprattutto di quella legata ai terreni, mentre un carattere più congiunturale sembra avere lo scarso incremento del gettito sia dell’imposta di ricchezza mobile sia delle imposte sui consumi[Pedone, cit., p. 306].

Per quanto riguarda le spese, si riducono le classiche componenti riferite al servizio del debito e all’amministrazione generale, ma aumentano quelle per l’istruzione e soprattutto quelle militari, in riferimento essenzialmente agli impegni per la guerra in Libia alla fine del periodo. Tra il 1909 e il 1912 si ha un incremento di ben 2 punti dell’incidenza percentuale della spesa pubblica sul pil, che passa infatti dal 16,3 per cento al 18,3 per cento, ben al di sopra degli altri Paesi europei (sempre includendo la quota degli enti locali) [Brosio, Marchese, cit., p. 51, tab. 3.1.]. Si vede che cambiano i parametri di fondo della situazione politica e di conseguenza della finanza pubblica. Il peso della componente militare dunque si accresce, così come anche quello della spesa locale sul totale della spesa della P.A., con un picco nel 1912 [Brosio, Marchese, cit., p. 57, tab 3.2.]. Viste le caratteristiche già descritte delle spese degli enti locali, aumentano le spese per opere pubbliche e per l’istruzione rispetto ai periodi precedenti, con una certa variabilità all’interno del periodo. Per le prime ad esempio, dopo il picco del 1910, nel 1912 le percentuali si assestano a un livello inferiore, mentre per le seconde i dati non sono univoci [Brosio, Marchese, cit., pp. 59 e 60, tab. 3.4.]. Recuperano le spese per la redistribuzione, anche se rimangono i ritardi storici rispetto ad altri Paesi europei.

Bibliografia

La finanza pubblica italiana nel secolo 1861-1960, il Mulino, Bologna 1962.