Beni culturali

di Roberto Balzani

élites di formazione prebellica, e comunque gravitanti intorno all’asse centrista: dal democristiano Franceschini, alla guida di una famosa commissione durante il primo centrosinistra, al repubblicano Spadolini, fondatore, fra il 1974 e il 1975, del Ministero per i Beni culturali.

Grand Tour uno dei cardini del permanente «successo» italiano, dopo Napoleone e le sue spoliazioni al concetto tecnico di opera d’arte si affiancò quello politico di patrimonio nazionale [Poulot 1997]. Il senso della perdita provocato dalle carovane francesi in marcia verso Parigi aveva generato una reazione identitaria, che però solo molti decenni dopo sarebbe precipitata in un’effettiva azione di tutela.

Proposta di legge,1906]. In mancanza di un simile miracolo, si diceva, meglio non muover nulla, e tenere «artificiosamente in vita […] rescritti granducali, notificazioni austriache, bandi borbonici, editti pontifici» [Parpagliolo 1935], limitandosi a richiamare, in casi estremi, la legge 26 giugno 1865 «su le espropriazioni degli immobili per causa di pubblica utilità». Il nodo non era marginale. Esso investiva un elemento fondante dell’ideologia liberale postunitaria: il primato del cittadino-proprietario rispetto alle prerogative dello Stato. Il dibattito in proposito era sempre stato molto acceso: ma nella prassi, cioè nella legislazione, i vincoli posti al libero dispiegarsi del diritto di proprietà erano stati piuttosto modesti.

Un primo disegno per disciplinare la materia – antichità e belle arti –, ponendo limiti all’esportazione, era stato partorito dal Consiglio di stato nel maggio 1868: affondato. Nei primi mesi del 1871, allorché erano stati aboliti i fedecommessi (l’«unico vincolo» al quale le gallerie e i musei di Roma dovevano la loro conservazione), il Senato si era limitato ad auspicare «provvedimenti legislativi per la conservazione delle raccolte artistiche, senza ledere i diritti dei proprietari» [Proposta di legge 1906]. Nel 1872 ci aveva riprovato Cesare Correnti, allora ministro della Pubblica istruzione. Il suo disegno di legge prevedeva limiti al diritto di esportazione e insisteva, inoltre, sul «decentramento» del «patrimonio», onde valorizzare musei e istituzioni locali: per il resto, il controllo dello Stato si sarebbe limitato ai beni più cospicui e alla regolamentazione del «traffico» di opere d’arte nel Paese. Per quanto animato da un forte impulso liberal-nazionale, sotto il profilo ideologico, il testo non alterava la sostanza privatistica del particolare «mercato» sul quale s’intendeva intervenire. Nonostante ciò, nulla di fatto. Ruggero Bonghi riprese il progetto nel 1875 e nel 1876: ancora nessun risultato. Il punto nevralgico – davvero insuperabile – del divieto d’esportazione, da imporre eccezionalmente anche senza l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato, vanificò gli sforzi successivi di Coppino (1878), De Sanctis (1878), ancora Coppino (1886), Villari e Martini (1892).

panoramiche diffuse, riscoperte, patrimonializzate dalla tradizione letteraria e legittimate dal rituale patriottico-identitario.

Una commissione mista per rimettere le mani sulla legge del 1902 chiuse i lavori nel maggio 1906: redattore del testo era Giovanni Rosadi, deputato radicale di Firenze ormai approdato alle sponde ministeriali. Rosadi era un fautore del primato del patrimonio culturale: quando, in quello stesso anno, egli trovò alla Minerva Luigi Rava, che provvide a nominare Corrado Ricci direttore generale delle antichità e belle arti, il «ciclo protezionista» ottenne un nuovo, decisivo impulso. I tre liberali, nel volgere di un triennio, ottennero quanto il Paese attendeva da mezzo secolo: la legge n. 364 del 20 giugno 1909 «Per le antichità e le belle arti» [Balzani 2003], con la quale il conflitto fra diritti della nazione e diritti del proprietario fu risolto con la vittoria ai punti dei primi. Il Ministero, infatti, poteva impedire, in particolari circostanze, l’esportazione di beni mobili di straordinario interesse storico-artistico o archeologico, anche senza esercitare la prelazione.

Falliva, invece, l’ipotesi di estendere gli effetti della legge alle «bellezze naturali». Cominciava allora un percorso difficile e contraddittorio che, attraverso i fallimenti del 1909-1910, i parziali successi della legge 11 giugno 1922, n. 778, presentata da Benedetto Croce, avrebbe trovato definitiva conclusione con la poderosa «sistemazione» dei tardi anni Trenta, quando fu approvata la legge 29 giugno 1939, n. 1497, base della «protezione delle bellezze naturali» fino a oggi [Piccioni 1999].

Grand Tour (Venezia, Ravenna, Firenze, Roma, Napoli). Con la Repubblica, il rapporto fra sensibilità diffusa e tutela cambiò: la ricostruzione alterò brutalmente i lineamenti dei centri storici e del paesaggio, spesso nella più totale indifferenza dell’opinione pubblica. Per contrastare la distruzione sistematica dell’Italia «museo», il 29 ottobre 1955 Umberto Zanotti Bianco, Pietro Paolo Trompeo, Giorgio Bassani, Desideria Pasolini dall’Onda, Elena Croce, Luigi Magnani e Hubert Howard diedero vita a Italia Nostra [Italia Nostra 1966]. Di nuovo il mondo liberale si rendeva protagonista di una grande battaglia civile, alla quale avrebbe dato mano forte «Il Mondo» di Mario Pannunzio, attraverso una serie di memorabili articoli di Antonio Cederna.

La cultura liberale, artefice del primo «ciclo protezionista», tornava a rivendicare la salvaguardia di quel patrimonio culturale che essa aveva contribuito a individuare e a codificare sotto il profilo giuridico. Il frutto delle campagne d’Italia Nostra e di altre voci sparse per il Paese fu l’istituzione della commissione d’indagine per la tutela del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, istituita con legge n. 310 del 26 aprile 1964, e presieduta dall’on. Francesco Franceschini. Nel volgere di due anni, la commissione svolse un’opera imponente, raccolta poi nei tre volumi Per la salvezza dei beni culturali in Italia (1967). Il governo non diede seguito, in quel momento, alle raccomandazione dei deputati, dei senatori e degli esperti: sarebbero occorsi ancora quasi dieci anni, perché sul finire del 1974 (con decreto legge 14 dicembre 1974, n. 657, convertito nella legge 29 gennaio 1975, n. 5), a un altro uomo politico di cultura liberale, Giovanni Spadolini [Spadolini 1976], fosse offerta la possibilità di dar vita a un autonomo Ministero, che allora si chiamava «per i Beni culturali e ambientali», separando dal ministro della Pubblica istruzione, oltre alle biblioteche e alle accademie, la storica direzione generale, impostata da Bonghi e resa celebre da Corrado Ricci. Le soprintendenze, costituite sotto il controllo della Minerva nel lontano 1907, acquisivano un proprio status, così come gli archivi di stato, fino ad allora posti alle dipendenze degli Interni. Era l’inizio di una nuova fase per il governo del patrimonio culturale: una fase che dura tuttora.

Bibliografia

A difesa di un patrimonio nazionale. L’Italia di Corrado Ricci nella tutela dell’arte e della natura, Longo, Ravenna 2002.