Agricoltura – Riforma agraria

di Emanuele Bernardi

Terminata la Seconda guerra mondiale, durante il periodo della ricostruzione tra il liberalismo di ispirazione einaudiana e il riformismo sociale si venne progressivamente a creare un’antitesi concettuale, condizionata dalla pregiudiziale anticomunista, che portò il Pli a privilegiare l’alleanza con le forze di destra, la Confindustria e la Confagricoltura e a marginalizzare la sua anima progressista, rappresentata da Niccolò Carandini, Luigi Compagna, Mario Pannunzio, Leonardo Albertini. Il riformismo conservatore che caratterizzò gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento nasce da questa dissociazione, in un contesto di forte conflittualità politica e sociale che portò i liberali a sostenere la battaglia antimonopolistica e liberalizzatrice (intrapresa in particolare da Ernesto Rossi), ma allo stesso tempo a opporsi alle politiche redistributive promosse dai partiti di sinistra e dalle sinistre della Democrazia cristiana.

Le posizioni dei liberali sulla riforma agraria, sempre intesa non solo come redistribuzione della terra ma anche quale riforma dei contratti agrari e bonifiche, si manifestarono già durante il dibattito in Assemblea costituente, quando Luigi Einaudi mosse una prima critica al testo della commissione presieduta dal Dc Paolo Emilio Taviani, suggerendo di sostituire alla parola «abolizione» del latifondo il termine «trasformazione», da realizzare mediante la bonifica, e poi sostenendo la necessità di intendere l’introduzione del limite alla proprietà non in senso assoluto né permanente ma correlato «alle diverse zone agrarie» distintive della realtà economica italiana.

Al fine di incrementare il numero dei proprietari, i liberali erano favorevoli alla concessione di sussidi per facilitare la compravendita delle terre e sostennero i due provvedimenti (del 24 febbraio 1948 n. 114, e del 5 marzo 1948, n. 121) adottati dal governo De Gasperi per favorire la formazione della piccola proprietà contadina. Proprio perché basati sul principio del mercato – sebbene alterato dalla concessione di sussidi – questi provvedimenti furono visti molto positivamente da chi, come Leone Cattani, li considerava strumenti ideali per «una vasta e pacifica rivoluzione conservatrice», per far lavorare contadini capaci in aree agricole produttive ma poco sfruttate, per fornire liquidità agli imprenditori che avrebbero venduto le terre per dedicarsi ad altri settori di investimento. Sia dal punto di vista dell’imprenditore che del contadino, in altre parole, la compravendita avrebbe dato responsabilità e nuova consapevolezza nel circuito della produzione, mobilitando ricchezze e saperi tecnici, rafforzando l’ordine economico e sociale [Cattani 1947].

Per quanto riguarda i contratti agrari, mentre le sinistre Dc proponevano di rivedere la ripartizione dei prodotti e di limitare il potere di disdetta del proprietario terriero, introducendo la «giusta causa» e assicurando maggiore stabilità al mezzadro, per i liberali non vi era in Italia la necessità economica di modificare l’istituto della mezzadria. Per Einaudi si doveva fare in modo che il proprietario terriero fosse costantemente interessato insieme al mezzadro all’intensificazione della produzione – e quindi alla modernizzazione delle tecniche agricole. Gli incrementi produttivi ottenuti attraverso questo processo di modernizzazione avrebbero portato al miglioramento delle condizioni di vita dello stesso mezzadro e quindi rafforzato ulteriormente l’istituto mezzadrile. Per ottenere ciò, Einaudi ipotizzò il prelievo del 10 per cento sulla massa dei prodotti agricoli da utilizzare come una «leva» per incentivare e provocare l’intervento congiunto proprietario-mezzadro sull’assetto produttivo del terreno [Einaudi 1946].

Nel discorso einaudiano la questione della disdetta era quindi sostanzialmente risolta nel senso di garantire tale libertà al proprietario, che doveva allo stesso tempo essere stimolato a potenziare la produzione agricola, trovando economicamente poco utile ricorrere alla risoluzione del rapporto mezzadrile. Su tali questioni, i richiami di Einaudi in qualità di presidente della Repubblica verso il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi furono frequenti, come quando con lettera del 19 gennaio 1949 si schierò, con considerazioni tecnico-matematiche, contro la giusta causa e la riforma dei contratti agrari presentata dalla Dc, che avrebbero sostanzialmente impedito la mobilità sociale.L’opposizione del Pli a una riforma strutturale dei patti agrari e la difesa della mezzadria sarebbero divenuti punti irrinunciabili del partito guidato da Malagodi fino a divenire una delle cause principali, alla metà degli anni Cinquanta, della crisi dei governi Scelba e Segni.

Alcune figure liberali e liberiste, del partito e di giornali come «Il Globo», strinsero rapporti personali con alcune importanti figure dell’amministrazione americana deputate alla gestione degli aiuti economici all’Italia e influenzarono la posizione del responsabile del Piano Marshall a Roma, James David Zellerbach, poi ambasciatore. Fattisi portavoce degli interessi della Confagricoltura e della Confindustria e, più in generale, dell’iniziativa privata su quella pubblica, Zellerbach e i tecnici americani mossero numerose obiezioni al progetto di riforma fondiaria portato avanti dal ministro dell’Agricoltura Segni, dichiarandosi disponibili a finanziarlo solo se modificati nel senso di un minore intervento dello Stato e di una maggiore valorizzazione dell’iniziativa privata e flessibilità legislativa.

Di fronte alle diffuse manifestazioni di protesta e alle articolate rivendicazioni promosse dai partiti di sinistra e dalla Cgil-Confederterra durante il periodo della ricostruzione, i liberali promossero politiche economiche ispirate ai principi sopra esposti ma sostennero anche la politica dell’ordine pubblico del ministro degli Interni Mario Scelba, rinnovandogli la fiducia dopo gli scontri più crudi tra le forze di polizia e il movimento contadino e operaio organizzato dalle sinistre, avvenuti a Melissa nell’ottobre del 1949 e a Modena, agli inizi del 1950, quando diversi manifestanti rimasero uccisi negli scontri con la Celere. Tra gli studiosi meridionalisti liberali (come Friedrich Vöchting) e i liberali di sinistra, che trovavano espressione nella rivista «il Mondo», in quelle occasioni si sviluppò un intenso dibattito sulla necessità di avviare politiche di intervento nel Mezzogiorno in grado di incidere sugli elevati livelli di povertà, di contenere per questa via la diffusione del comunismo e di prevenire il rafforzamento di partiti di destra come l’Msi e i monarchici.

Di fronte alla volontà di De Gasperi di realizzare una riforma espropriatrice, prima in Calabria e poi nel resto del Paese, col coinvolgimento di figure dall’elevata competenza tecnica come Manlio Rossi-Doria e Giuseppe Medici – vicine ad Einaudi e ben viste dai liberali di sinistra – alla fine del 1949 il Pli cercò di articolare e di presentare formalmente una propria proposta di riforma agraria: il partito propose di concentrare la riforma in alcuni comprensori (individuati sulla base dei livelli di disoccupazione e di produttività delle diverse aree) ed accettò la possibilità dell’esproprio, sebbene condizionato alla provata incapacità del proprietario terriero di procedere alla trasformazione del proprio terreno o alla sua inadempienza rispetto all’impegno assunto. Nel progetto del Pli si fece inoltre riferimento agli enti di colonizzazione e si accettò pure la possibilità che potessero esservi delle espropriazioni eccezionali, contro indennità, per raggiungere la cifra di 1 o 1,2 milioni di ettari di terra. Doveva essere infine ulteriormente avvantaggiata la cessione volontaria della terra, applicata l’enfiteusi e realizzata un’attenta valutazione delle capacità tecniche del contadino assegnatario.

Nonostante l’esclusione del Pli dal governo nel 1950, fu comunque Giuseppe Medici a elaborare la cosiddetta legge «stralcio» dell’ottobre, che realizzava il principio selettivo dell’intervento espropriativo rinunciando al disegno della riforma agraria generale. Einaudi definì la legge Sila, la prima legge di riforma agraria, un’azione espropriatrice di rottura, un «colpo d’ariete», e fu la firma del Presidente della Repubblica a rendere esecutivi i decreti di esproprio, dando loro efficacia legislativa. Egli tuttavia rifiutò di presenziare alla distribuzione delle terre, ritenendo la riforma agraria un atto offensivo verso la proprietà privata e avrebbe a lungo considerato quelle leggi inadeguate a risolvere efficacemente i molti problemi dell’agricoltura italiana.

Bibliografia

Il Partito liberale, in I partiti politici nell’Italia repubblicana,a cura di G. Nicolosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.